Per un uso antagonista della crisi

Stiamo attraversando un frangente storico in cui la stessa nozione di
“fase” (politica, economica) potrebbe presto perdere di senso perché
incapace di comprendere e spiegare una temporalità e un orizzonte
differenti per natura
da quelli che li hanno preceduti. Ci troviamo di fronte ad una crisi
ancora non misurabile coi parametri classici e che ci si presenta
innanzi (forse per anni) come sfondo normale del nostro vivere e agire
politico quotidiano. Una crisi non congiunturale quindi, ma di
medio-lungo periodo, strutturale e sistemica. Una crisi formatasi in un
contesto di globalizzazione capitalista compiuta, originatasi negli
Stati Uniti ma propagatasi viralmente in tutto il globo, creando un
sistema deficitario globale che intacca l’Asia e l’Europa, l’Africa e
l’America Latina. Nessuno è al riparo dalla crisi ma non tutti
pagheranno gli stessi costi, in termini assoluti e proporzionali. In
alcune aree dell’ex-Terzo Mondo gli effetti della crisi sono stati
pagati preventivamente con la manifestazione di una crisi alimentare
che è già anticipazione di futuri disastri, laddove è la stessa
possibilità di sussistenza (cereali come petrolio) ad essere quotata in
borsa. Così, a differenti livelli, per quote consistenti di popolazione
statunitense è l’intero sistema-welfare a essere giocato sui tavoli
delle roulettes finanziarie attraverso la privatizzazione del deficit spending.
In Europa, Asia e LatinoAmerica la crisi colpisce con gradi e intensità
differenti ma quello che  è certo è che non si sta dando alcun decoupling (sganciamento) rispetto a una crisi che è globale.

Ma di cosa parliamo quando diciamo “crisi”?
Marxianamente, leggiamo la crisi dentro il rapporto sociale capitalista
di produzione e riproduzione. Nella sua forma ciclica il capitalismo
alterna periodi di sviluppo e crescita a fasi di recessione e declino.
E’ bene ricordare che nel sistema capitalista la crisi non è mai
momento accidentale o frutto di singolare malagestione ma elemento
interno e strutturale, momento periodicamente ritornante del suo modo
di produzione. Arma strategica con cui ristabilire nuovi e più
schiaccianti rapporti di forza. Addentrandoci nel lessico capitalista
possiamo equiparare il termine crisi a “distruzione”, sviluppo a
“creazione”. Ma costruzione e distruzione dentro e per il mantenimento di un ordine capitalista, da sempre intrecciate in quella distruzione creativa che da attribuzione del singolo capitalista sembra oggi diventata proprietà sistemica.
In una fase ascendente (o di sviluppo) riproduzione sociale e
riproduzione sistemica (capitalista) coincidono, il capitale si fa
“sociale”. In  una fase di declino (o crisi) le loro strade divergono e
si dissociano. Le capacità distruttive del capitalismo emergono oggi
nello iato che intercorre tra esigenze della riproduzione sociale e
costi della riproduzione sistemica. Non è solo che il Capitale si trova
oggi ancora una volta a scegliere quali e quanti pezzi di società e
sistema distruggere per ricreare un nuovo, più esteso e intensificato,
ciclo di accumulazione di ricchezza sotto il segno della legge del
profitto. Questo, lo farà! Per il Capitale si  tratta oggi di
ripresentare, declinato in forme nuove, un uso capitalistico della crisi all’altezza
dei tempi. Ma ciò non toglie che quello iato è divenuto enorme nella
forma di una crisi che è contestualmente economica, ecologica,
sistemica: una crisi della riproduzione sociale complessiva che fa
vacillare ogni misura “anticiclica” tradizionale.

L’ostacolo (per noi occasione?) che il sistema capitalista si trova
oggi innanzi è infatti quello di una crisi creata non per fronteggiare
un’insubordinazione di classe su larga scala ma come risultante (sempre
di nuovo rimandata) di un lungo processo di creazione di capitale fittizio
(cioè virtuale, sganciato da ogni forma sostanziale di ricchezza) che
negli ultimi tre decenni ha preso la forma di pura speculazione.
L‘inghippo (per tutti) è che questa economia virtualizzata è legata a
doppio filo all’economia reale al punto che interi pezzi della
riproduzione sociale statunitense (ma non solo, il virus intacca anche
pezzi d’Europa  con lo spregiudicato uso dei derivati, ecc.) sono nelle
mani della finanza. In questo senso non si può più parlare oggi di una
distinzione netta tra economia reale ed economia finanziaria, nel
momento in cui fondi pensione, bilanci regionali, fondi-cassa di
imprese fino ai conti correnti del risparmiatore minuto vengono giocati
alle roulettes di un capitalismo-da-casinò. Ciò vuol dire che non si
può liquidare la faccenda pensando che sia affare di brokers e
banchieri. Nel momento in cui le due dimensioni sono intrecciate i
ripetuti crolli delle borse internazionali bruciano con sé – ad ogni
picchiata – pezzi consistenti della ricchezza (povertà) complessiva:
posti di lavoro, garanzie sociali, beni comuni. E, anche e 
soprattutto, pongono un’ipoteca ancora più gravosa – coi famigerati
“salvataggi” – sulla produzione di ricchezza e relazioni sociali future.
L’orizzonte che si prepara per una parte consistente di umanità è
quello di una lotta all’ultimo sangue tra espropriazione capitalista
della vita e fronti di resistenza/riappropriazione/costruzione del
comune.

Una ridefinizione dei poteri

Il portato distruttivo di ogni crisi capitalista non risparmia dal suo
campo d’azione – ed è per noi il nodo centrale – anche i rapporti di
potere operanti nella società che, come tutto il resto, subiscono 
delle variazioni e delle pressioni al cambiamento. Non è arduo
ipotizzare per i tempi a venire l’emergenza di nuove forme politiche il
cui segno non è ancora definito ma che saranno posta in gioco e campo
di battaglia delle forze in campo.
Da molto tempo la forma politica dell’Occidente capitalista, la
democrazia rappresentativo-parlamentare, segna il passo mostrando non
poche difficoltà (specie in Europa) a riformare/innovare il sistema.
Questo assunto è vero tanto per i movimenti (sociali, di classe) quanto
per il comando capitalista. La perdita di legittimità del ceto politico
istituzionale radicalizzatosi in questi anni e che abbiamo definito
come crisi della rappresentanza
altro non è stato che sintomo e primo manifestarsi di una ben più
radicata crisi del sistema politico istituzionale nel suo insieme,
crisi a suo modo segnalata anche dall’elezione di Obama. Dal punto di
vista dei movimenti, la democrazia formale (che è anche
l’unica esistente) funge da ostacolo e recupero dentro la compatibilità
sistemica di istanze di rivendicazione potenzialmente più radicali; dal
punto di vista del comando, è freno e resistenza ai tentativi di
innovazione e ristrutturazione di parte capitalista. Anche se, va
detto, i due lati non sono simmetrici per i movimenti e i nuovi
soggetti potenzialmente antagonisti: che sono alla ricerca di una
confusa forma di democrazia “post-politica” in cui tende a venir meno
la scissione, propria del movimento operaio tradizionale, tra
cooperazione sociale da ricostruire e autorganizzazione del conflitto

Una delle ipotesi da considerare è che, dentro questo quadro, un ruolo non minore sarà quello svolto dai ceti medi,
da sempre centrali nel garantire la riproduzione sociale complessiva in
termini di trasmissione del sapere tecnico-scientifico e legittimazione
ideologica del quadro istituzionale. In cambio di un riconoscimento di
status e reddito, questo blocco sociale ha incarnato nel secondo
Novecento la desiderabilità del regime democratico, sintetizzato nelle
promesse dell’american dream e nelle sicurezze della socialdemocrazia europea.
Oggi questa galassia sociale, tanto mutata e variegata in termini di
professioni e funzioni produttive quanto omogenea dal punto vista dei
valori e dei riferimenti, sta vivendo un attacco senza precedenti ai
propri standard di vita (salari, garanzia di stabilità, accesso ai
consumi) e  relativa auto-rappresentazione.
Il percepirsi come mera estensione della working class
e appendice sacrificabile della riproduzione capitalista potrebbe farne
venir meno il ruolo storico di cuscinetto della lotta di classe,
soprattutto nella misura in cui la questione del debito e della rendita
si porranno sempre più come terreni di scontro piuttosto che di consenso.
L’interrogativo circa il loro comportamento è tanto più importante se
consideriamo il precedente storico della crisi del’29, troppe volte
citata nei commentari odierni. Nelle tre risposte, pur diverse, a
quella crisi (new-deal americano, stato  “autarchico” nazi-fascista
europeo e socialismo sovietico stalinista) centrale fu il ruolo dei
ceti medi, ovunque interpreti e propaganda-vivente del nuovo corso
istituzionale.

Alla definizione di un nuove ordine e alla relativa
istituzionalizzazione di nuovi rapporti di forza politici ed economici
parteciperanno tutti quei pezzi della composizione sociale che
penseranno di avere qualcosa da guadagnare (o nulla da perdere)
dall’ingaggio nel conflitto sociale. L’esito di questo processo non è
scontato, quello che è certo è che siamo di fronte a un bivio
e ci ritroveremo presto o tardi di fronte a scelte (da ambo le parti)
le cui conseguenze saranno notevoli sul piano economico, sociale e
politico. Dentro questo quadro, il nodo per noi politico e centrale è –
come sempre – quello degli spazi di antagonismo che si apriranno.

Le conseguenze sul quadro internazionale

Globale e sistemica, la crisi non ha tardato a produrre effetti molto
concreti a livello proprio di globalizzazione. Le mutazioni dei
rapporti di potere prodotti dalla crisi agiscono ed agiranno ad ogni
livello: internamente alle singole aree macronomiche e nazionali, tra i
poli capitalistici.

La vittoria di Obama negli States è pienamente da leggersi come primo
effetto, sul breve periodo, della crisi capitalista globale. Se
l’amministrazione Bush fosse riuscita a contenere ancora per qualche
mese lo scoppio della bolla finanziaria, oggi non staremo certo a
parlare del “primo presidente afroamericano della storia”. Questo non
toglie nulla della spinta al “change
che ha animato il recente voto americano perché, per quanto simulato e
contraffatto, lo spettro del conflitto di classe ha segnato le elezioni
Usa. Il dato politico significativo dell’evento-Obama è stata la
reintroduzione pesante delle tematiche e dei problemi che ruotano
intorno al nodo capitale-lavoro, ricchezza e sua redistribuzione. Come
è stato segnalato da più parti, l’insediamento di Obama non potrà non
segnare il conflitto sociale dentro i confini americani. Essa segna uno
spostamento su un altro piano, se non del conflitto, perlomeno del
dibattito politico. La parentesi clintoniana ha prodotto (anche e tra
gli altri – dentro un’ovvia continuità neoliberista/imperialista) la
primavera di Seattle. I risultati della presidenza Obama, come già il
contesto più generale, aprono in questo senso prospettive e
interrogativi nuovi.
Quello che è certo è che gli Usa non potranno scaricare i costi della
crisi interamente sugli altri, come ancora era stato il caso delle
precedenti bolle finanziarie: “tigri asiatiche”, “convenzione
internet”, ecc… Questo perché non solo i mercati esteri ma l’intera
riproduzione sociale Usa è in mano alla Finanza, come i casi Enron e il
crollo dei mutui subprimes hanno chiaramente mostrato. Ora però
l’intreccio tra potenze, stati, banche centrali e sistema della finanza
è talmente profondo e inestricabile che il virus si propaga e riproduce
ad ogni latitudine, occupando ogni interstizio economico.

Dentro questo quadro, la questione aperta più scottante (è più sentita dai think tank
americani) è quella del destino della super-potenza Usa in termini di
egemonia e comando del sistema-mondo capitalista. Se la formazione di
un mondo multi-polare conflittuale è il prodotto di un processo di
lungo corso, lo spostamento nella leadership capitalistica mondiale
potrebbe essere, sul medio periodo, l’esito più diretto di questa
crisi: uno spostamento verso Est e l’asse cino-indiano quale nuovo
centro mondiale di accumulazione e direzione capitalista che non smette
di preoccupare le agenzie e i pensatoi statunitensi. Ambienti in cui,
da qualche anno, si parla esplicitamente della possibilità di un
“condominio” cino-americano (“Chimerica”) nel quadro di un G2 informale
Usa-Cina (ovviamente sbilanciato verso gli Usa).

Schiacciata tra questi due poli, l’Europa: politicamente subalterna al
comando atlantico-statunitense (che non ha smesso di indebolirla a
mezzo di guerre: dalla Jugoslavia all’Iraq) è però andata
consolidandosi come area economica integrata ed in diversi contesti
economico-monetari l’Euro viene ora preferito al Dollaro come moneta di
riserva.
Le stesse aree che un lessico eurocentrico osa ancora definire
“emergenti” (quando economie come quella brasiliana hanno tassi di
crescita più vicini alla Cina che all’Europa) hanno fatto presente, ben
prima degli universitari nostrani, che non intendono pagare loro la
crisi. L’America Latina, solo per fare un esempio, va consolidando un
processo di integrazione economica continentale che si concepisce ed
organizza al di fuori del controllo statunitense.
A pagare i prezzi più alti di questa transizione geo-politica saranno
ancora probabilmente le popolazioni di quelle aree del globo al centro
degli interessi geo-economici e geo-politici (medio-oriente e asia
centrale) mentre l’Africa continuerà ad occupare l’ultimo posto nella
geografia politica della globalizzazione.

Il quadro nazionale

I costi della crisi sono già evidenti sul piano nazionale, in un
sistema-paese da sempre all’ultimo posto nelle classifiche europee su
redditi e capacità d’acquisto dei salari, penalizzato dalle scelte
politiche di esecutivi di ogni colore che hanno sacrificato – per anni
– i comparti strategici dell’economia nazionale accettando di occupare
gli ultimi gradini, a bassa composizione organica di capitale,  nel
sistema della divisone internazionale del lavoro.

Il dato  più interessante che ci consegna questa fase è però quello
dell’estrema labilità e precarietà nella stabilizzazione del consenso
per governi che vengono a malapena tollerati finché gestiscono il
presente, scaricati non appena tentano di imporre misure antipopolari.
Quanti già annunciavano il compiersi irreversibile di un fascismo
post-moderno, si sono dovuti ricredere di fronte alla risposta
massificata e capillare dei conflitti cha hanno attraversato il sistema
della formazione. Ben diversamente dal proclamato decisionismo, il
governo Berlusconi tentenna, come i suoi predecessori, in una mera
governabilità dell’esistente. L’uso manu militari
della forza pubblica è stato tanto velocemente minacciato quanto
prontamente ritirato da un esecutivo paralizzato dalla tirannia del
consenso mediatico. La cosa è stata vera, solo per fare alcun esempi,
tanto per il movimento dell’Onda quanto per il NoTav.

Probabilmente i soggetti sociali su cui sarà più facile scaricare
tensioni sociali e pruriti securitari saranno ancora una volta i
migranti (specie se “clandestini”). Anche qui però, a prevalere non è
l’acquiescenza né l’accettazione: le spinte soggettive messesi in moto
dopo l’assassinio di Abba e la semi-insurrezione di Castelvolturno sono
segnali importanti. La risposta corale della scuola primaria alla
provocazione delle classi ponte, la presenza massiccia delle donne
migranti alle manifestazioni contro la legge Gelmini sono lo specchio
rovesciato e il più sicuro antidoto alle tendenze xenofobe e populiste
che covano in sacche rancorose di popolazione.

Il movimento No Gelmini che ha acceso
l’autunno sorge e si colloca lungo questo orizzonte al tempo stesso
contradditorio e potenziale. La spinta iniziale alla mobilitazione è
provenuta dal connubio genitori-insegnanti, dalla percezione precisa
dell’impatto biopolitico della riforma, nella misura in cui
questa giungerebbe a stravolgere i precari equilibri che tengono
insieme tempi di vita, di cura e di lavoro nell’epoca della precarietà
diffusa. Una protesta in larga parte spontanea e partita dal basso,
autonoma e non di rado insofferente dei macchinosi tempi sindacali,
incalzati e letteralmente spinti alla convocazione dei pochi scioperi
da una base che ha mostrato di avere vedute più ampie e bisogni più
alti.
Da parte governativa il provvedimento è così direttamente figlio della
crisi che esplicita senza pudori la necessità di “fare cassa”, la
violenza ineluttabile e “normale” della razionalità economica. Lo
sguardo miope del commercialista sottende però la finalità politica di
una ri-articolazione gerarchica del sistema-formazione lungo le linee
della classe, del genere e del colore. Una riforma classista
perché nega una volta per tutte la formazione come bene comune,
istituendola come merce al tempo stesso svalorizzata e cara, la cui
qualità è direttamente proporzionale al prezzo che si è disposti a
pagare. Sessista perché tendente a ricollocare la donna nella
sfera  domestica della cura, relegando  il compito della riproduzione
all’istituzione-famiglia, con tutto ciò che esso comporta in termini di
addomesticamento delle libertà e dell’emancipazione femminile. Razzista
perché dietro l’istituzione di classi separate (o ponte, fintamente
“integratrici”) si cela una volontà politica di educazione alla
subalternità della forza-lavoro migrante fin dalla più tenera età.
Se la scuola è sempre stata un apparato ideologico di
formazione/disciplinamento/controllo del corpo sociale complessivo –
nessuna nostalgia quindi per un “pubblico” declinato innanzitutto come
“statale” – la riforma Gelmini segna il definitivo completamento di un
progetto di lungo corso del comando capitalista, volto allo svuotamento
delle potenzialità di soggettivazione politica di massa, sganciata dal
ciclo della valorizzazione capitalista, che la scuola da sempre riveste.

Sollevatasi dopo la scuola primaria, l’Onda universitaria
ha qualificato soggettivamente e politicamente l’opposizione sociale
alla legge, intuendo nello slogan “noi la crisi non la paghiamo” il
nesso profondo che lega politica nazionale dei tagli e crisi
internazionale di sistema; la popolarità e velocità di propagazione e
riproduzione del messaggio sono segnali precisi di una indisponibilità
popolare diffusa a pagare i costi sociali della crisi.
La mobilitazione, dentro e oltre l’università, ha attivato energie sociali inedite, salutando la nascita di una nuova generazione politica
che assume – ma non per questo accetta – la precarietà come orizzonte
esistenziale di un futuro incerto già prefigurato nel presente. Un
movimento che ha messo le mani avanti e precisato, a partititi e
sindacati, il suo carattere orgogliosamente irrappresentabile,
determinato e unito nel respingere ogni tentazione di autonomia del
politico quanto molteplice nella composizione e variegato nelle forme
espressive. Un movimento compiutamente “post-ideologico” si è detto,
già tutto proiettato in avanti nel percepirsi come pura forza-lavoro
intellettuale senza futuro. Una ricchezza che può trasformarsi in
limite se il disconoscimento radicale della delega si trasforma in
rifiuto della relazione politica in astratto, del momento politico tout
court.

I limiti e le difficoltà dell’Onda sono però quelli connaturati ad ogni
movimento nuovo e spontaneo. Il paradosso che li attraversa è quello di
abitare lo spazio deserto, incerto e potenziale della crisi restando
ancora ostaggio delle sovrastrutture ideologiche del discorso pubblico
“democratico” e “legalitario”. Un campo popolato da intellettuali di
corte che additano nella corruzione la causa degenerativa di un sistema
altrimenti equo e riformisticamente perfettibile. Retoriche che
naturalizzano il carattere invece politico e storico del comando di
classe, veicolando una interpretazione a-storica e immutabile
dell’organizzazione sociale, come se  le leggi non fossero il prodotto
di rapporti di forza sempre precari ma tavole bibliche scolpite nella
roccia. Proprio quando la legittimità del sistema vacilla, aprendo
scenari di radicalizzazione dello scontro e  possibilità reali di
trasformazione, questi professionisti dell’addomesticamento (che
occupano il campo vasto e ambiguo della “società civile” e
dell’“opinione pubblica”) confondono gli obiettivi, riducendo
l’ampiezza della questione sociale a banalità di cronaca penale.
Smascherarne il ruolo di difensori dello status-quo, ricentrando il
dibattito politico sulle cause strutturali e sistemiche della
sperequazione sociale, deve allora diventare compito non secondario
delle soggettività antagoniste.
 
Nella parzialità metodologica del nostro punto di vista antagonista,
non si tratta tanto di confrontare le forme dei movimenti sorgenti con
le nostre aspettative, quanto di pensare per movimenti futuri,
cogliendo nell’involucro del presente i nodi centrali del conflitti di
domani. Il movimento dell’Onda e quelli raccoltisi negli ultimi anni
intorno alla difesa di territori e beni comuni, hanno iniziato a
fornire gli spunti di una tendenza più generale che mette al centro
dell’azione politica una miscela inedita di antagonismo e
(contro)cooperazione, in cui il momento del conflitto è sempre
accompagnato da pratiche costituenti di alternativa, al di furori però
di una qualunque mediazione istituzionale risolutiva. Diventa allora
perdente e contro-producente ritentare percorsi già provati nel passato
e rivelatisi fallimentari, smaniando di trovare una sponda politica
costi quel che costi, magari nelle porosità eretiche del PD di oggi in
sostituzione di quelle verdi, rosse e arcobaleno di ieri. Necessario
diventa invece scommettere a tutto campo sui percorsi di mobilitazione
sociale sprovvisti di rappresentanza politica che la macchina della
crisi continuerà a tracimare.
Agirne le ambivalenze e potenziarne la conflittualità in direzione
anti-capitalistica e anti-sistemica è l’unica strada percorribile per
un antagonismo all’altezza dei tempi, affinché “noi la crisi non la
paghiamo” non resti solo uno slogan ma la coordinata di partenza di un
necessario programma di riappropriazione della ricchezza sociale.

Antagonist* contro la crisi

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