Non giustificare in nessun modo il governo di Israele!


Giustificare Israele significa

INNEGGIARE AI MASSACRATORI DI PERSONE INERMI
( B’Tselem una ONG israeliana, dichiarava che ad esempio nel 2006 il 54 per cento delle 657 vittime dell’esercito
israeliano erano civili—dal sito www.pane-rose.it)

Giustificare Israele significa
STARE DALLA PARTE DI CHI DISTRUGGE CASE, VILLAGGI ED INTERI PAESI
(Il 13 novembre 2008 risultava che “Dal 2000 a Gerusalemme Est sono tuttavia state demolite oltre 600 case;
in tutta la Cisgiordania oltre 1600, denuncia il DFAE.” D.F.A.E. è il Dipartimento federale degli affari esteri
della Svizzera da Swissinfo.ch)

Giustificare Israele significa

STARE DALLA PARTE DI CHI METTE ALLA FAME UOMINI, DONNE E BAMBINI
(da http://www.peacelink.it/conflitti/a/28206.html prendiamo questa citazione: “Israele, d’altra parte, non ha
rispettato gli obblighi di porre fine all’assedio e permettere agli aiuti umanitari di giungere a Gaza. Dei 450
camion che in media ogni giorno riuscivano a raggiungere il confine, solo otto, nei giorni più fortunati, potevano
entrare, mentre il confine rimaneva serrato ermeticamente per il 70% del tempo. Durante il presunto
“cessate il fuoco” gli abitanti di Gaza sono stati costretti a vivere come animali, con un totale di 262 persone
morte a causa dell’impraticabilità di adeguate cure mediche.”)

Giustificare Israele significa
STARE CON CHI DISTRUGGE LA DEMOCRAZIA PALESTINESE
(dal sito Globalproject.info: Giovedì 26 gennaio 2006 12:31
Elezioni in Palestina, vince Hamas: è una svolta storica—I risultati delle elezioni in Palestina sono sorprendenti.
Secondo le prime dichiarazioni Hamas ha ottenuto 78 seggi a Gaza e in Cisgiordania, quindi più del 50%
dei voti.)
(dal sito www.giuristidemocratici.it: “Così appare piuttosto ipocrita la pretesa sostenuta con forza anche dagli
stati occidentali, che Hamas riconosca lo Stato Israeliano, e ratifichi i trattati internazionali sottoscritti dai
precedenti governi palestinesi, trascurando colpevolmente il fatto che Israele non ha mai rispettato alcun trattato
internazionale che riconoscesse dei diritti ai palestinesi, né ha mai riconosciuto la Palestina come Stato,
né accettato di ritirarsi oltre la linea dei territori che continua ad occupare militarmente, nonostante le ripetute
condanne degli organismi e delle corti internazionali, da oltre 40 anni.”)

Questo significa che giustificare la guerra di Israele è come
STARE CON CHI MENTE, CON GLI IPOCRITI CONTRO CHI VUOLE LA VERITA’

(si dice che è stata Hamas ad interrompere la tregua a dicembre, ma nessuno ricorda ad esempio che, come riportato
da www.ilsole24ore.com il 4 novembre 2008: <<Quattro militanti palestinesi sono rimasti uccisi questa
sera (4/11/2008) in un raid aereo israeliano nella Striscia di Gaza. Lo hanno reso noto fonti palestinesi.
Qualche ora prima l’esercito israeliano era entrato nella Striscia di Gaza e si è scontrato con miliziani palestinesi.
Si tratta della prima volta dalla tregua stabilita nel giugno scorso.>>

Questo significa che giustificare Israele è come
STARE COI FASCISTI CONTRO GLI ANTIFASCISTI

Questo significa che giustificare Israele è come
STARE COI RAZZISTI CONTRO GLI ANTIRAZZISTI

Questo significa che giustificare Israele è come
STARE CON GLI STUPRATORI E NON CON CHI SI DIFENDE

IL GOVERNO ISRAELIANO, pur essendo una coalizione eletta, è un governo
sionista che fa suoi i metodi FASCISTI e che COMPIE in questo momento
i PIU’ ATROCI CRIMINI CONTRO L’UMANITA’:
CHI NON LO DICE E’ COMPLICE!

Per contattarci: ogni martedì alle 21,30 al Laboratorio S.Co.S.S.A. in Via Carteria, 50 a Modena o via
posta elettronica all’indirizzo cam@autistici.org
A cura del C.ollettivo A.utonomo M.odenese

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Prove di ordinario razzismo

Scena: sala comunale;

protagonisti: un immigrato, un assessore, alcuni testimoni;

l’immigrato dichiara all’assessore: "io chiudo il mio phone-center
perchè ha una dimensione inferiore ai 10 metri quadri, a patto che
facciate chiudere tutte le attività anche degli italiani che si svolgono
in uno spazio inferiore ai 10 metri quadri; posso indicarle una
tabaccheria in cui bisogna entrare in non più di una persona per volta,
ad esempio …".

Siamo nella solita città dominata da leghisti razzisti che più razzisti
non si può?

No, siamo nel centro dell’Emilia Rossa, siamo a Modena con una giunta di
sin… è sbagliato completare la parola, perchè se no si svilisce il
significato storico di quel termine.

Diciamo che siamo a Modena con una giunta reazionaria, molto sensibile
alle sollecitazioni dei comitati popolari nei quali da tempo la destra
ripone le sue speranze.

Sono comitati come quelli che hanno suggerito ed appoggiato a Sassuolo
lo sgombero del palazzo verde, forse uno degli atti di discriminazione
razziale più gravi gestiti da una amministrazione negli ultimi anni. E
mentre Sassuolo sta per fare il bis con un nuovo imminente sgombero in
gennaio, Modena si limita a gettare sul lastrico ed a portare alla
rovina tra le 30 e le 40 famiglie di immigrati che gestiscono phone
center in città.

Possibile? Avranno mica fatto un decreto che impone agli stranieri di
chiudere i loro negozi, come fecero i fascisti in questa città contro i
negozi gestiti da religiosi ebraici negli anni ’40?

No, le giunte reazionarie che provengono dalle evoluzioni successive
dello sgretolamente del PCI, attuano tecniche più sofisticate:
costruiscono regolamenti comunali che pongono la maggior parte di questi
esercizi nella impossibilità di continuare ad esistere.

Quale è la colpa di questi gestori, quella di essere dei mercanti esosi?

No, sono persone che hanno aperto piccoli negozi posti in centro
storico, in cui si vendono o si vendevano generi alimentari a buon
mercato e ci si può collegare ad internet o telefonare a prezzi bassi,
svolgendo un servizio per quegli emigrati che necessitano di comunicare
con famiglie lontane o funzionale alla vita di quegli anziani che,
avendo difficoltà a recarsi nei centri commerciali lontani dal centro,
ritrovavano nuovamente sotto casa alcuni generi di prima necessità.

Il fatto è che talvolta all’esterno di questi luoghi c’è chi si ferma a
parlare, qualcuno compra altrove bottiglie di birra e si trova qui
assieme a connazionali per scambiare due chiacchiere, per discutere,
qualche volta litigare; questi fatti determinano lamentele nel vicinato,
le stesse che accompagnano i luoghi di ritrovo alla moda che sono stati
riaperti nel centro cittadino. La differenza è che per questi ultimi il
comune è intervenuto attraverso pratiche di mediazione con operatori che
hanno contribuito a far incontrare le esigenze di chi vive il centro
occasionalmente, con coloro che lo abitano. Nel caso dei phone center,
invece, hanno deciso di costruire una leggina locale ad-hoc che ne
faccia chiudere la maggior parte.

Peccato che secondo alcuni immigrati qui da oltre vent’anni, la chiusura
dell’attività coincide con la chiusura di una possibilità di vita
conquistata pazientemente con il proprio lavoro. Significa non sapere
come sfamare i propri figli, come dare un futuro alle proprie mogli ed
ai propri mariti.

La progressione di regolamenti prima statali, poi regionali, ha prodotto
il sedimentarsi successivo di lavori di ristrutturazione interna di
questi luoghi, che ha prodotto l’indebitamento dei gestori; quest’ultimo
intervento di carattere comunale è una vera e propria stroncatura
dell’attività.

E’ stato fatto un ricorso al Tar e per questo i gestori hanno chiesto
che il Comune di Modena attenda l’esito del ricorso stesso, in virtù del
fatto che a Milano il comune aveva fatto un regolamento che poi il Tar
ha bocciato considerando illegittimo il regolamento stesso.

Solo che gli amministratori modenesi si sono espressi dicendo che loro
mica facevano le cose come i milanesi! Qui a Modena sono molto più fini
e quello che non passa Milano, a Modena si può stare certi che passerà!

Per questo il Collettivo Autonomo Modenese in quanto componente del
C.La.R.Mo. (Coordinamento Lavoratori Resistenti Modenesi) ha partecipato
alla contestazione che ieri ha suscitato scalpore in consiglio comunale,
in cui il nostro democratico consesso ha deciso che questi immigrati non
potevano neppure esporre dei cartelli perchè "non inerenti" alla
discussione del consiglio. La cosa pazzesca è che ricominciando a
leggere il suo intervento il sindaco ha citato i fondi spesi dal comune
per l’integrazione dei cittadini stranieri e nessuno dei consiglieri ha
notato minimamente la stonatura, l’insulsa e crudele ridicolaggine del
succedersi degli eventi.

La lotta ha sortito una disponibilità da parte di alcuni consiglieri nel
sostenere la questione attraverso una interpellanza che verrà discussa a
fine gennaio, mentre il regolamento diverrà operativo il primo gennaio,
ed anche un incontro con l’assessore il cui tenore è stato già
parzialmente chiarito all’inizio di questo intervento.

Solo da aggiungere che l’assessore alla domanda dell’immigrato, più che
rispondere si guardava attorno allibito dicendo con un suo
collaboratore: "… non credevo che fossero così tanti!". Diciamo che la
competenza nella comprensione dei fenomeni non pare molto grande, così
come l’attenzione, oltre che per i diretti interessati, anche per quei
settori delle classi subalterne che trovano in questi luoghi alcune
risposte ai loro bisogni.

Ma una qualunque visione di classe è passata di moda da molto tempo in
questa città … certo non per il CAM e alcuni altri!

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Comunicato di solidarietà ad Eugenio ed agli operai della Maserati in lotta!

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Il C.La.R.Mo., esprime la propria solidarietà
ai lavoratori in lotta della Maserati contro il mancato rinnovo contrattuale di
112 precari.
Ci poniamo al fianco della lotta di questi lavoratori perché riteniamo
inaccettabile che a pagare per una crisi messa in piedi dai padroni, siano i
soliti noti, gli operai.

E’ chiaro che
questa crisi offre il pretesto per mettere in piedi una ristrutturazione
padronale che ricade su tutto il sistema produttivo, al fine di garantire ai
padroni un controllo sempre più asfissiante su coloro che vendono la propria
forza lavoro.

Al di là delle
osservazioni sulle responsabilità dei tre sindacati confederali, visto che la
stampa faceva emergere una tendenza orientata alla mediazione considerando che
era già stato concordato il non rinnovo di una ventina di contratti, noi
sosteniamo che la crisi non deve ricadere né sui lavoratori a tempo determinato
né su quelli a tempo indeterminato: non siamo noi che dobbiamo pagare con casse
integrazioni, mobilità, licenziamenti, ma i padroni che debbono abbassare i
loro profitti che negli ultimi anni erano cresciuti a dismisura.

In particolare
a pagare non deve essere Eugenio, colpito solo per scoraggiare gli operai più
combattivi nella vertenza: la difesa del suo posto di lavoro deve costituire un
momento fondamentale di solidarietà.

Sempre i
padroni nei momenti di tensione cercano di colpire qualcuno per dividerci e
frantumare il fronte di lotta, per far ricadere su di noi la responsabilità
dell’esasperazione che sono loro a costruire giorno per giorno. Dobbiamo far
capire ai padroni che colpendo lui, colpiscono ciascuno di noi!

 

Per questo diventa necessario
realizzare uno sciopero che si estenda almeno a tutto il gruppo Fiat modenese!

SOLIDARIETA’ AD EUGENIO!

SOLIDARIETA’ AGLI OPERAI DELLA MASERATI IN
LOTTA!

LA NOSTRA RABBIA E’ FRUTTO DELLO SFRUTTAMENTO
DEI PADRONI: NOI LA VOSTRA CRISI NON LA PAGHIAMO!

 C.oordinamento La.voratori
R.esistenti Mo.denesi

riunisce alcune realtà tra le quali il C.A.M., il
P-C.A.R.C. ed altre realtà operaie (Ferrari, ecc.) che si incontreranno 
questa sera al Laboratorio Scossa in Via Carteria, 50 a Modena alle ore 21,30
per affrontare le problematiche relative al territorio.

PARTECIPATE!

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La crisi la generano i padroni e i padroni devono pagarla!

Operai, Lavoratori, Studenti, alla crisi del capitalismo, gli sfruttati arrivano divisi e disorientati e
senza avere una organizzazione adeguata alla fase che metta in discussione il mondo di produzione
capitalista che si basa sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso:
l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di
momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di
sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa
civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio.
Con quale mezzo i padroni riescono a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente
una grande quantità di forze produttive –licenziamenti e chiusure di fabbriche innanzitutto; per un altro
verso, conquistando nuovi mercati (neocolonialismo) e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti.
Per l’altro verso con una guerra.
La crisi del 1907 causò la prima guerra mondiale, quella del 1929 causò la seconda guerra
mondiale: compagni, non lasciamoci coinvolgere in un terzo conflitto militare per difendere gli interessi
dell’imperialismo europeo. Ma non è crisi per tutti, come sempre. Questa crisi come le altre, frutto del
sistema capitalistico, ricade solo sulle classi subalterne. Mai come in questo momento c’è abbondanza di
cose che non vengono vendute. Operai, salariati e lavoratori tutti però, non hanno la possibilità di acquistare
nemmeno i beni essenziali. I padroni, come sempre, cercano di scaricare sulle classi subalterne
l’inceppamento del loro meccanismo. Hanno già cercato di appropriarsi dei nostri risparmi attraverso lo
scippo del TFR, che andando in borsa, è stato mangiato da altri.
Questi sono i risultati:
Fondo Enel: – 27% Chimica: – 24,89% Pegaso (servizi di pubblico utilità): – 18% Cometa
(metalmeccanici) – 16,43%
Questi sono solo degli esempi, perché tutti i fondi sono in grave perdita.
Per anni padroni, sindacati di regime CGIL-CISL e UIL e governi di destra e di sinistra hanno
concertato sulla pelle dei lavoratori chiedendo sacrifici e solo sacrifici per mantenere in piedi un capitalismo
e un apparato politico-sindacale asservito alla borghesia imperialista, diritti e salari che si riducevano ad ogni
tornata contrattuale.
Appoggiamo i lavoratori dell’aeroporto di Bologna che hanno il diritto di essere rappresentati dai
Sindacati di Base votati dalla stragrande maggioranza;
condanniamo Cgil, Cisl e Uil che hanno abbandonato i lavoratori dell’Alitalia al loro destino,
firmando un contratto che ha cancellato gli accordi presi in precedenza;
non vogliamo che i sindacati concertativi nell’impiego privato abbiano una quota riservata dentro
tutte le RSU aziendali;
impediamo ai padroni di distruggere il contratto nazionale dividendoci, azienda per azienda, reparto

per reparto, individuo per individuo.
Parlano male dei dipendenti pubblici per penalizzare tutti: infatti la legge 133 non riguarda solo
l’università, ma tutto il mondo del lavoro ed i tagli alla scuola pubblica colpiranno i nostri figli, non certo
quelli dei padroni.
I padroni ci considerano delle merci: dimostriamo a questi affamatori di popolo che la merce forzalavoro
ha una testa e un cervello che è capace di dare delle risposte unitarie.
Anche per tutto questo, abbiamo fondato un coordinamento, un ambito di confronto dal basso, un
laboratorio, per trovarci uniti a promuovere le lotte in base ai nostri bisogni e non a quelle di padroni, partiti
o sindacati dominanti che mirano unicamente alla loro sopravvivenza.

CI TROVIAMO OGNI PRIMO E TERZO MERCOLEDI DEL MESE PRESSO
IL LABORATORIO SCOSSA in Via Carteria, 50 A MODENA,
CI INCONTRIAMO IL 12 DICEMBRE A BOLOGNA AL
CONCENTRAMENTO DEI LAVORATORI DI MODENA

C.oordinamento La.voratori R.esistenti Mo.denesi (C.La.R.Mo.)
Lavoratori militanti Partito Comunista dei Lavoratori – militanti Slai Cobas – P-CARC sezione Modena – C.ollettivo A.utonomo M.odenese (C.A.M.) – operai Ferrari Auto – Assophonecenter Modena
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Solidarietà a Crash!

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I compagni e le compagne del Collettivo Autonomo Modenese esprimono tutta la loro solidarietà agli/le attivist* del Laboratorio Crash.
Stamane verso le 7 un ingente schieramento di polizia e carabinieri ha, per l’ennesima volta, attaccato e sgomberato l’occupazione di Crash, effettuata solo sabato scorso.
I compagni e le compagne, che si sono radunati immediatamente allo spazio sgomberato, hanno risposto a questo atto di repressione effettuando blocchi stradali: la polizia ha caricato violentemente ferendo una ragazza alla testa.
Ancora una volta l’amministrazione Cofferati, rispondendo ai diktat del Partito Democratico, ha espresso totale chiusura nei confronti di chi restituisce alla città spazi di aggregazione, di produzione culturale  ed autorganizzazione dal basso.
Oggi nelle città di tutt’Italia si svolgeranno presidi di solidarietà a Crash davanti alla prefetture.
Dalla periferia al centro della città, dal nord al sud d’Italia oggi sara’ la giornata in cui il blocco dell’antagonismo sociale dira’ chiaramente che nessuno sgombero sara’ piu’ tollerato. In questi tempi di crisi sociali se i poteri delle città pensano di contrastare e reprimere la costruzione di spazi sociali, non hanno ancora capito con chi hanno a che fare… Ancora oggi come il movimento no-gelmini saremo in piazza per dire che in dietro non si torna e se ci bloccano il nostro futuro noi bloccheremo le nostre città…
Noi la crisi non la paghiamo! D’ora in poi a pagarla saranno solo loro!


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Per un uso antagonista della crisi

Stiamo attraversando un frangente storico in cui la stessa nozione di
“fase” (politica, economica) potrebbe presto perdere di senso perché
incapace di comprendere e spiegare una temporalità e un orizzonte
differenti per natura
da quelli che li hanno preceduti. Ci troviamo di fronte ad una crisi
ancora non misurabile coi parametri classici e che ci si presenta
innanzi (forse per anni) come sfondo normale del nostro vivere e agire
politico quotidiano. Una crisi non congiunturale quindi, ma di
medio-lungo periodo, strutturale e sistemica. Una crisi formatasi in un
contesto di globalizzazione capitalista compiuta, originatasi negli
Stati Uniti ma propagatasi viralmente in tutto il globo, creando un
sistema deficitario globale che intacca l’Asia e l’Europa, l’Africa e
l’America Latina. Nessuno è al riparo dalla crisi ma non tutti
pagheranno gli stessi costi, in termini assoluti e proporzionali. In
alcune aree dell’ex-Terzo Mondo gli effetti della crisi sono stati
pagati preventivamente con la manifestazione di una crisi alimentare
che è già anticipazione di futuri disastri, laddove è la stessa
possibilità di sussistenza (cereali come petrolio) ad essere quotata in
borsa. Così, a differenti livelli, per quote consistenti di popolazione
statunitense è l’intero sistema-welfare a essere giocato sui tavoli
delle roulettes finanziarie attraverso la privatizzazione del deficit spending.
In Europa, Asia e LatinoAmerica la crisi colpisce con gradi e intensità
differenti ma quello che  è certo è che non si sta dando alcun decoupling (sganciamento) rispetto a una crisi che è globale.

Ma di cosa parliamo quando diciamo “crisi”?
Marxianamente, leggiamo la crisi dentro il rapporto sociale capitalista
di produzione e riproduzione. Nella sua forma ciclica il capitalismo
alterna periodi di sviluppo e crescita a fasi di recessione e declino.
E’ bene ricordare che nel sistema capitalista la crisi non è mai
momento accidentale o frutto di singolare malagestione ma elemento
interno e strutturale, momento periodicamente ritornante del suo modo
di produzione. Arma strategica con cui ristabilire nuovi e più
schiaccianti rapporti di forza. Addentrandoci nel lessico capitalista
possiamo equiparare il termine crisi a “distruzione”, sviluppo a
“creazione”. Ma costruzione e distruzione dentro e per il mantenimento di un ordine capitalista, da sempre intrecciate in quella distruzione creativa che da attribuzione del singolo capitalista sembra oggi diventata proprietà sistemica.
In una fase ascendente (o di sviluppo) riproduzione sociale e
riproduzione sistemica (capitalista) coincidono, il capitale si fa
“sociale”. In  una fase di declino (o crisi) le loro strade divergono e
si dissociano. Le capacità distruttive del capitalismo emergono oggi
nello iato che intercorre tra esigenze della riproduzione sociale e
costi della riproduzione sistemica. Non è solo che il Capitale si trova
oggi ancora una volta a scegliere quali e quanti pezzi di società e
sistema distruggere per ricreare un nuovo, più esteso e intensificato,
ciclo di accumulazione di ricchezza sotto il segno della legge del
profitto. Questo, lo farà! Per il Capitale si  tratta oggi di
ripresentare, declinato in forme nuove, un uso capitalistico della crisi all’altezza
dei tempi. Ma ciò non toglie che quello iato è divenuto enorme nella
forma di una crisi che è contestualmente economica, ecologica,
sistemica: una crisi della riproduzione sociale complessiva che fa
vacillare ogni misura “anticiclica” tradizionale.

L’ostacolo (per noi occasione?) che il sistema capitalista si trova
oggi innanzi è infatti quello di una crisi creata non per fronteggiare
un’insubordinazione di classe su larga scala ma come risultante (sempre
di nuovo rimandata) di un lungo processo di creazione di capitale fittizio
(cioè virtuale, sganciato da ogni forma sostanziale di ricchezza) che
negli ultimi tre decenni ha preso la forma di pura speculazione.
L‘inghippo (per tutti) è che questa economia virtualizzata è legata a
doppio filo all’economia reale al punto che interi pezzi della
riproduzione sociale statunitense (ma non solo, il virus intacca anche
pezzi d’Europa  con lo spregiudicato uso dei derivati, ecc.) sono nelle
mani della finanza. In questo senso non si può più parlare oggi di una
distinzione netta tra economia reale ed economia finanziaria, nel
momento in cui fondi pensione, bilanci regionali, fondi-cassa di
imprese fino ai conti correnti del risparmiatore minuto vengono giocati
alle roulettes di un capitalismo-da-casinò. Ciò vuol dire che non si
può liquidare la faccenda pensando che sia affare di brokers e
banchieri. Nel momento in cui le due dimensioni sono intrecciate i
ripetuti crolli delle borse internazionali bruciano con sé – ad ogni
picchiata – pezzi consistenti della ricchezza (povertà) complessiva:
posti di lavoro, garanzie sociali, beni comuni. E, anche e 
soprattutto, pongono un’ipoteca ancora più gravosa – coi famigerati
“salvataggi” – sulla produzione di ricchezza e relazioni sociali future.
L’orizzonte che si prepara per una parte consistente di umanità è
quello di una lotta all’ultimo sangue tra espropriazione capitalista
della vita e fronti di resistenza/riappropriazione/costruzione del
comune.

Una ridefinizione dei poteri

Il portato distruttivo di ogni crisi capitalista non risparmia dal suo
campo d’azione – ed è per noi il nodo centrale – anche i rapporti di
potere operanti nella società che, come tutto il resto, subiscono 
delle variazioni e delle pressioni al cambiamento. Non è arduo
ipotizzare per i tempi a venire l’emergenza di nuove forme politiche il
cui segno non è ancora definito ma che saranno posta in gioco e campo
di battaglia delle forze in campo.
Da molto tempo la forma politica dell’Occidente capitalista, la
democrazia rappresentativo-parlamentare, segna il passo mostrando non
poche difficoltà (specie in Europa) a riformare/innovare il sistema.
Questo assunto è vero tanto per i movimenti (sociali, di classe) quanto
per il comando capitalista. La perdita di legittimità del ceto politico
istituzionale radicalizzatosi in questi anni e che abbiamo definito
come crisi della rappresentanza
altro non è stato che sintomo e primo manifestarsi di una ben più
radicata crisi del sistema politico istituzionale nel suo insieme,
crisi a suo modo segnalata anche dall’elezione di Obama. Dal punto di
vista dei movimenti, la democrazia formale (che è anche
l’unica esistente) funge da ostacolo e recupero dentro la compatibilità
sistemica di istanze di rivendicazione potenzialmente più radicali; dal
punto di vista del comando, è freno e resistenza ai tentativi di
innovazione e ristrutturazione di parte capitalista. Anche se, va
detto, i due lati non sono simmetrici per i movimenti e i nuovi
soggetti potenzialmente antagonisti: che sono alla ricerca di una
confusa forma di democrazia “post-politica” in cui tende a venir meno
la scissione, propria del movimento operaio tradizionale, tra
cooperazione sociale da ricostruire e autorganizzazione del conflitto

Una delle ipotesi da considerare è che, dentro questo quadro, un ruolo non minore sarà quello svolto dai ceti medi,
da sempre centrali nel garantire la riproduzione sociale complessiva in
termini di trasmissione del sapere tecnico-scientifico e legittimazione
ideologica del quadro istituzionale. In cambio di un riconoscimento di
status e reddito, questo blocco sociale ha incarnato nel secondo
Novecento la desiderabilità del regime democratico, sintetizzato nelle
promesse dell’american dream e nelle sicurezze della socialdemocrazia europea.
Oggi questa galassia sociale, tanto mutata e variegata in termini di
professioni e funzioni produttive quanto omogenea dal punto vista dei
valori e dei riferimenti, sta vivendo un attacco senza precedenti ai
propri standard di vita (salari, garanzia di stabilità, accesso ai
consumi) e  relativa auto-rappresentazione.
Il percepirsi come mera estensione della working class
e appendice sacrificabile della riproduzione capitalista potrebbe farne
venir meno il ruolo storico di cuscinetto della lotta di classe,
soprattutto nella misura in cui la questione del debito e della rendita
si porranno sempre più come terreni di scontro piuttosto che di consenso.
L’interrogativo circa il loro comportamento è tanto più importante se
consideriamo il precedente storico della crisi del’29, troppe volte
citata nei commentari odierni. Nelle tre risposte, pur diverse, a
quella crisi (new-deal americano, stato  “autarchico” nazi-fascista
europeo e socialismo sovietico stalinista) centrale fu il ruolo dei
ceti medi, ovunque interpreti e propaganda-vivente del nuovo corso
istituzionale.

Alla definizione di un nuove ordine e alla relativa
istituzionalizzazione di nuovi rapporti di forza politici ed economici
parteciperanno tutti quei pezzi della composizione sociale che
penseranno di avere qualcosa da guadagnare (o nulla da perdere)
dall’ingaggio nel conflitto sociale. L’esito di questo processo non è
scontato, quello che è certo è che siamo di fronte a un bivio
e ci ritroveremo presto o tardi di fronte a scelte (da ambo le parti)
le cui conseguenze saranno notevoli sul piano economico, sociale e
politico. Dentro questo quadro, il nodo per noi politico e centrale è –
come sempre – quello degli spazi di antagonismo che si apriranno.

Le conseguenze sul quadro internazionale

Globale e sistemica, la crisi non ha tardato a produrre effetti molto
concreti a livello proprio di globalizzazione. Le mutazioni dei
rapporti di potere prodotti dalla crisi agiscono ed agiranno ad ogni
livello: internamente alle singole aree macronomiche e nazionali, tra i
poli capitalistici.

La vittoria di Obama negli States è pienamente da leggersi come primo
effetto, sul breve periodo, della crisi capitalista globale. Se
l’amministrazione Bush fosse riuscita a contenere ancora per qualche
mese lo scoppio della bolla finanziaria, oggi non staremo certo a
parlare del “primo presidente afroamericano della storia”. Questo non
toglie nulla della spinta al “change
che ha animato il recente voto americano perché, per quanto simulato e
contraffatto, lo spettro del conflitto di classe ha segnato le elezioni
Usa. Il dato politico significativo dell’evento-Obama è stata la
reintroduzione pesante delle tematiche e dei problemi che ruotano
intorno al nodo capitale-lavoro, ricchezza e sua redistribuzione. Come
è stato segnalato da più parti, l’insediamento di Obama non potrà non
segnare il conflitto sociale dentro i confini americani. Essa segna uno
spostamento su un altro piano, se non del conflitto, perlomeno del
dibattito politico. La parentesi clintoniana ha prodotto (anche e tra
gli altri – dentro un’ovvia continuità neoliberista/imperialista) la
primavera di Seattle. I risultati della presidenza Obama, come già il
contesto più generale, aprono in questo senso prospettive e
interrogativi nuovi.
Quello che è certo è che gli Usa non potranno scaricare i costi della
crisi interamente sugli altri, come ancora era stato il caso delle
precedenti bolle finanziarie: “tigri asiatiche”, “convenzione
internet”, ecc… Questo perché non solo i mercati esteri ma l’intera
riproduzione sociale Usa è in mano alla Finanza, come i casi Enron e il
crollo dei mutui subprimes hanno chiaramente mostrato. Ora però
l’intreccio tra potenze, stati, banche centrali e sistema della finanza
è talmente profondo e inestricabile che il virus si propaga e riproduce
ad ogni latitudine, occupando ogni interstizio economico.

Dentro questo quadro, la questione aperta più scottante (è più sentita dai think tank
americani) è quella del destino della super-potenza Usa in termini di
egemonia e comando del sistema-mondo capitalista. Se la formazione di
un mondo multi-polare conflittuale è il prodotto di un processo di
lungo corso, lo spostamento nella leadership capitalistica mondiale
potrebbe essere, sul medio periodo, l’esito più diretto di questa
crisi: uno spostamento verso Est e l’asse cino-indiano quale nuovo
centro mondiale di accumulazione e direzione capitalista che non smette
di preoccupare le agenzie e i pensatoi statunitensi. Ambienti in cui,
da qualche anno, si parla esplicitamente della possibilità di un
“condominio” cino-americano (“Chimerica”) nel quadro di un G2 informale
Usa-Cina (ovviamente sbilanciato verso gli Usa).

Schiacciata tra questi due poli, l’Europa: politicamente subalterna al
comando atlantico-statunitense (che non ha smesso di indebolirla a
mezzo di guerre: dalla Jugoslavia all’Iraq) è però andata
consolidandosi come area economica integrata ed in diversi contesti
economico-monetari l’Euro viene ora preferito al Dollaro come moneta di
riserva.
Le stesse aree che un lessico eurocentrico osa ancora definire
“emergenti” (quando economie come quella brasiliana hanno tassi di
crescita più vicini alla Cina che all’Europa) hanno fatto presente, ben
prima degli universitari nostrani, che non intendono pagare loro la
crisi. L’America Latina, solo per fare un esempio, va consolidando un
processo di integrazione economica continentale che si concepisce ed
organizza al di fuori del controllo statunitense.
A pagare i prezzi più alti di questa transizione geo-politica saranno
ancora probabilmente le popolazioni di quelle aree del globo al centro
degli interessi geo-economici e geo-politici (medio-oriente e asia
centrale) mentre l’Africa continuerà ad occupare l’ultimo posto nella
geografia politica della globalizzazione.

Il quadro nazionale

I costi della crisi sono già evidenti sul piano nazionale, in un
sistema-paese da sempre all’ultimo posto nelle classifiche europee su
redditi e capacità d’acquisto dei salari, penalizzato dalle scelte
politiche di esecutivi di ogni colore che hanno sacrificato – per anni
– i comparti strategici dell’economia nazionale accettando di occupare
gli ultimi gradini, a bassa composizione organica di capitale,  nel
sistema della divisone internazionale del lavoro.

Il dato  più interessante che ci consegna questa fase è però quello
dell’estrema labilità e precarietà nella stabilizzazione del consenso
per governi che vengono a malapena tollerati finché gestiscono il
presente, scaricati non appena tentano di imporre misure antipopolari.
Quanti già annunciavano il compiersi irreversibile di un fascismo
post-moderno, si sono dovuti ricredere di fronte alla risposta
massificata e capillare dei conflitti cha hanno attraversato il sistema
della formazione. Ben diversamente dal proclamato decisionismo, il
governo Berlusconi tentenna, come i suoi predecessori, in una mera
governabilità dell’esistente. L’uso manu militari
della forza pubblica è stato tanto velocemente minacciato quanto
prontamente ritirato da un esecutivo paralizzato dalla tirannia del
consenso mediatico. La cosa è stata vera, solo per fare alcun esempi,
tanto per il movimento dell’Onda quanto per il NoTav.

Probabilmente i soggetti sociali su cui sarà più facile scaricare
tensioni sociali e pruriti securitari saranno ancora una volta i
migranti (specie se “clandestini”). Anche qui però, a prevalere non è
l’acquiescenza né l’accettazione: le spinte soggettive messesi in moto
dopo l’assassinio di Abba e la semi-insurrezione di Castelvolturno sono
segnali importanti. La risposta corale della scuola primaria alla
provocazione delle classi ponte, la presenza massiccia delle donne
migranti alle manifestazioni contro la legge Gelmini sono lo specchio
rovesciato e il più sicuro antidoto alle tendenze xenofobe e populiste
che covano in sacche rancorose di popolazione.

Il movimento No Gelmini che ha acceso
l’autunno sorge e si colloca lungo questo orizzonte al tempo stesso
contradditorio e potenziale. La spinta iniziale alla mobilitazione è
provenuta dal connubio genitori-insegnanti, dalla percezione precisa
dell’impatto biopolitico della riforma, nella misura in cui
questa giungerebbe a stravolgere i precari equilibri che tengono
insieme tempi di vita, di cura e di lavoro nell’epoca della precarietà
diffusa. Una protesta in larga parte spontanea e partita dal basso,
autonoma e non di rado insofferente dei macchinosi tempi sindacali,
incalzati e letteralmente spinti alla convocazione dei pochi scioperi
da una base che ha mostrato di avere vedute più ampie e bisogni più
alti.
Da parte governativa il provvedimento è così direttamente figlio della
crisi che esplicita senza pudori la necessità di “fare cassa”, la
violenza ineluttabile e “normale” della razionalità economica. Lo
sguardo miope del commercialista sottende però la finalità politica di
una ri-articolazione gerarchica del sistema-formazione lungo le linee
della classe, del genere e del colore. Una riforma classista
perché nega una volta per tutte la formazione come bene comune,
istituendola come merce al tempo stesso svalorizzata e cara, la cui
qualità è direttamente proporzionale al prezzo che si è disposti a
pagare. Sessista perché tendente a ricollocare la donna nella
sfera  domestica della cura, relegando  il compito della riproduzione
all’istituzione-famiglia, con tutto ciò che esso comporta in termini di
addomesticamento delle libertà e dell’emancipazione femminile. Razzista
perché dietro l’istituzione di classi separate (o ponte, fintamente
“integratrici”) si cela una volontà politica di educazione alla
subalternità della forza-lavoro migrante fin dalla più tenera età.
Se la scuola è sempre stata un apparato ideologico di
formazione/disciplinamento/controllo del corpo sociale complessivo –
nessuna nostalgia quindi per un “pubblico” declinato innanzitutto come
“statale” – la riforma Gelmini segna il definitivo completamento di un
progetto di lungo corso del comando capitalista, volto allo svuotamento
delle potenzialità di soggettivazione politica di massa, sganciata dal
ciclo della valorizzazione capitalista, che la scuola da sempre riveste.

Sollevatasi dopo la scuola primaria, l’Onda universitaria
ha qualificato soggettivamente e politicamente l’opposizione sociale
alla legge, intuendo nello slogan “noi la crisi non la paghiamo” il
nesso profondo che lega politica nazionale dei tagli e crisi
internazionale di sistema; la popolarità e velocità di propagazione e
riproduzione del messaggio sono segnali precisi di una indisponibilità
popolare diffusa a pagare i costi sociali della crisi.
La mobilitazione, dentro e oltre l’università, ha attivato energie sociali inedite, salutando la nascita di una nuova generazione politica
che assume – ma non per questo accetta – la precarietà come orizzonte
esistenziale di un futuro incerto già prefigurato nel presente. Un
movimento che ha messo le mani avanti e precisato, a partititi e
sindacati, il suo carattere orgogliosamente irrappresentabile,
determinato e unito nel respingere ogni tentazione di autonomia del
politico quanto molteplice nella composizione e variegato nelle forme
espressive. Un movimento compiutamente “post-ideologico” si è detto,
già tutto proiettato in avanti nel percepirsi come pura forza-lavoro
intellettuale senza futuro. Una ricchezza che può trasformarsi in
limite se il disconoscimento radicale della delega si trasforma in
rifiuto della relazione politica in astratto, del momento politico tout
court.

I limiti e le difficoltà dell’Onda sono però quelli connaturati ad ogni
movimento nuovo e spontaneo. Il paradosso che li attraversa è quello di
abitare lo spazio deserto, incerto e potenziale della crisi restando
ancora ostaggio delle sovrastrutture ideologiche del discorso pubblico
“democratico” e “legalitario”. Un campo popolato da intellettuali di
corte che additano nella corruzione la causa degenerativa di un sistema
altrimenti equo e riformisticamente perfettibile. Retoriche che
naturalizzano il carattere invece politico e storico del comando di
classe, veicolando una interpretazione a-storica e immutabile
dell’organizzazione sociale, come se  le leggi non fossero il prodotto
di rapporti di forza sempre precari ma tavole bibliche scolpite nella
roccia. Proprio quando la legittimità del sistema vacilla, aprendo
scenari di radicalizzazione dello scontro e  possibilità reali di
trasformazione, questi professionisti dell’addomesticamento (che
occupano il campo vasto e ambiguo della “società civile” e
dell’“opinione pubblica”) confondono gli obiettivi, riducendo
l’ampiezza della questione sociale a banalità di cronaca penale.
Smascherarne il ruolo di difensori dello status-quo, ricentrando il
dibattito politico sulle cause strutturali e sistemiche della
sperequazione sociale, deve allora diventare compito non secondario
delle soggettività antagoniste.
 
Nella parzialità metodologica del nostro punto di vista antagonista,
non si tratta tanto di confrontare le forme dei movimenti sorgenti con
le nostre aspettative, quanto di pensare per movimenti futuri,
cogliendo nell’involucro del presente i nodi centrali del conflitti di
domani. Il movimento dell’Onda e quelli raccoltisi negli ultimi anni
intorno alla difesa di territori e beni comuni, hanno iniziato a
fornire gli spunti di una tendenza più generale che mette al centro
dell’azione politica una miscela inedita di antagonismo e
(contro)cooperazione, in cui il momento del conflitto è sempre
accompagnato da pratiche costituenti di alternativa, al di furori però
di una qualunque mediazione istituzionale risolutiva. Diventa allora
perdente e contro-producente ritentare percorsi già provati nel passato
e rivelatisi fallimentari, smaniando di trovare una sponda politica
costi quel che costi, magari nelle porosità eretiche del PD di oggi in
sostituzione di quelle verdi, rosse e arcobaleno di ieri. Necessario
diventa invece scommettere a tutto campo sui percorsi di mobilitazione
sociale sprovvisti di rappresentanza politica che la macchina della
crisi continuerà a tracimare.
Agirne le ambivalenze e potenziarne la conflittualità in direzione
anti-capitalistica e anti-sistemica è l’unica strada percorribile per
un antagonismo all’altezza dei tempi, affinché “noi la crisi non la
paghiamo” non resti solo uno slogan ma la coordinata di partenza di un
necessario programma di riappropriazione della ricchezza sociale.

Antagonist* contro la crisi

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Sagome contro la crisi…

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AUMENTA LA CRISI? AUMENTA LA LOTTA!

Le giornate che stiamo vivendo sono attraversate dal dilagare della crisi economica a livello globale, una crisi che difficilmente il comando capitalista riuscirà ad arginare utilizzando i consueti strumenti di politica economica e finanziaria.
Crisi nata negli Stati Uniti d’America, per effetto di aspetti economico – finanziari, che li hanno costretti a forti tassi d’indebitamento, e per effetto dei contraccolpi a medio termine della guerra e dell’occupazione del suolo irakeno.
Ora però la crisi non si limita agli Stati Uniti, il suo carattere è di fatto già globale, e non riguarda solo il sistema bancario ed il sistema borsistico: è una crisi di sistema i cui effetti sono ingovernabili.
All’interno di questo scenario, in Italia, Governo e Confindustria vorrebbero dar vita ad un nuovo capitolo della “macelleria sociale”, che negli ultimi anni hanno portato avanti i governi di centro-destra e centro-sinistra, che si esplicita nella legge 126/24 sulla detassazione degli straordinari, nella legge 133 (che contiene anche il  “decreto Brunetta” sulla deregolamentazione del mercato del lavoro), nell’indebolimento degli ispettori del lavoro e dell’INPS, e nell’ipotesi di riforma dei contratti di lavoro.
La pretesa infatti è quella di far pagare la crisi ai lavoratori, agli studenti, ed ai precari; componenti che però hanno dato vita ad un movimento che ha saputo caratterizzare un autunno di lotte, movimento che ha intrecciato i suoi segmenti con quelli del sindacalismo di base nella giornata del 17 ottobre, movimento che ha costretto la CGIL di Epifani ad una perenne rincorsa di mobilitazioni autonome ed autorganizzate, come nel caso delle manifestazioni dell’Onda e degli scioperi selvaggi dei lavoratori Alitalia organizzati in comitati di lotta (supportati dai sindacati di base).
Proprio all’interno della CGIL la fase che si è aperta risulta essere molto complessa: da un lato il tentativo di isolamento operato da Berlusconi, che costringe Epifani a non sedersi più ai tavoli della concertazione e della co-gestione con il Capitale pubblico e privato; dall’altro la pressione della base che non si sente più né rappresentata ne tantomeno capita dai vertici CGIL. Si spiega da questo punto di vista la proclamazione di 4 ore di sciopero generale per il 12 dicembre, fatta anche per arginare la “presa di piazza” della FIOM che per quella giornata aveva precedentemente convocato lo sciopero di 8 ore.
Proprio il 12 dicembre diventa una giornata fondamentale per andare a chiarire il quadro complessivo: il movimento dell’Onda Anomala, durante l’assemblea alla Sapienza del 15 novembre, ha fatto sua la giornata del 12 lanciando le parole d’ordine dello Sciopero Generale Generalizzato.
Tutto ciò avviene all’interno di una fase caratterizzata da una vasta e diffusa crisi di rappresentanza politica dei partiti ed in una messa in discussione dei sindacati confederali e del loro ruolo di controllo sociale.  
A questo movimento il compito di operare dal basso una forte rottura politica. Rottura che si consuma dicendo chiaramente: “la vostra crisi Noi non la paghiamo”.
Rottura operata anche su un piano di ricomposizione di classe, andando a dare una lettura sociale del fenomeno del precariato, non come ambito contrattuale ma come fenomeno esistenziale. “Noi la crisi non la paghiamo” diventa quindi una battaglia che impatta direttamente i livelli accumulativi e di redditività capitalistici ,  andando a costruire una prospettiva di lotta per il “salario sociale di classe”, ponendosi in questo modo da un punto di vista antagonista ed incompatibile alle logiche di governance.
La giornata del 12 dicembre diventa, senza mezzi termini, un primo banco di prova per il movimento, finora unica vera opposizione sociale nel paese, nel tentativo di coinvolgere altri pezzi della società nella lotta per affrontare la crisi ed il comando capitalista che l’ha generata.

Questo scritto prende spunto da analisi ed interventi reperibili sul sito: www.infoaut.org

NETWORK ANTAGONISTA MODENESE

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Sabato 29 giornata AntiFascista

Sabato 29 novembre C.ollettivo A.utonomo M.odenese & Laboratorio S.Co.S.S.A. presentano:

Giornata Antifascista

dalle ore 16 presso laboratorio scossa (via carteria 50, laterale di via emilia centro)
proiezioni e dibattito sull’antifascismo di ieri e di oggi
con visita e commemorazione prsso la targa che ricorda Gino Ferrari in piazza S.Giacomo
ragazzo antifascista, assasinato dalle Brigate Nere la sera del 30 novembre 1944

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SOLIDARIETA’ AGLI STUDENTI MEDI

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Con questo comunicato come Collettivo Autonomo Modenese esprimiamo la totale solidarietà e vicinanza agli studenti delle scuole superiori di Modena che ieri sono scesi in piazza per manifestare il proprio totale dissenso alle scelte del governo sull’istruzione pubblica.

Vogliamo ribadire la totale legittimità della protesta, pensando che un blocco del traffico sia infinitamente meno grave rispetto all’arroganza di un governo che porta avanti un ambizioso progetto di “macelleria sociale” per mezzo di decreti legge.

Rispetto poi a chi, da destra e da sinistra, invoca denunce e si trincera dietro lo scudo della legalità, che con il governo attuale è di per sé una cosa abbastanza ridicola, ci sentiamo di dirgli che è ben più illegale fare pagare una crisi, scaturita dalle scelte scellerate di pochi padroni, a tutta la società, in particolare a studenti, lavoratori e precari. Ricordiamo anche che il concetto di legalità cambia se lo si guarda con gli occhi dei padroni o con quelli delle classi subalterne.

Questo movimento, sia a livello nazionale, sia a livello locale, sta dimostrando di essere, al momento, l’unica componente sociale che fa opposizione reale alle scelte del governo e lo sta facendo con la consapevolezza di essere irrappresentabile, incontrollabile ed indomabile: da questo punto di vista auspichiamo che presto, anche altri pezzi di società lo seguano su questa strada.

SOLIDARIETA’ INCONDIZIONATA AGLI STUDENTI DELLE SCUOLE SUPERIORI.

SOLIDARIETA’ AL COLLETTIVO STUDENTI MODENA UNITI

SOLIDARIETA’ E COMPLICITA’ ALLE PRATICHE DI SCIOPERO SELVAGGIO E BLOCCO DELLA CITTA’

SE CI BLOCCANO IL FUTURO NOI BLOCCHIAMO LA CITTA’

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